di Elisa Veronese

Questa è la mia storia, intrecciata a quella di mio figlio.

Per la prima volta ho sentito parlare di disprassia a settembre 2018, dall’insegnante di sostegno di mio figlio. Mi chiese se Nicolò avesse questo disturbo. Caddi letteralmente dalle nuvole, il mio bambino era molto seguito: psicomotricità, fisioterapia, logopedia, terapia occupazionale, calcio e piscina. Ma nessuno mi aveva mai detto questo nome: “Disprassia”. Così da brava mamma iniziai a informarmi, sapendo che di base mio figlio aveva un problema di coordinazione. Ordinai un libro, “Il bambino disprassico”, e fu come aprire un diario, un varco sulla mia infanzia e adolescenza, tanto che iniziai a chiedermi se il libro parlasse di mio figlio o di me. Tutte le difficoltà, tutti gli ostacoli erano lì, nero su bianco. È stato come togliere una grossa patina dalla mia vita. Ed eccomi, a trentasette anni, prendere finalmente coscienza di me stessa, della mia vita, della mia mente e del mio corpo.

Sono Elisa, sono diplomata al liceo socio-psico-pedagogico con 100/100 e laureata in infermieristica. Lavoro come infermiera full-time e a turni. Ho due bambini, uno di undici anni e uno di sei, disprassico. Sono da sempre in lotta con il tempo e con la frenesia quotidiana. Vivo con agenda e liste e timer. Sì, liste perché mi scordo le cose da fare quando si accavallano i pensieri e timer perché faccio fatica a gestire il tempo, dopo un po’ mi perdo e soprattutto mi stanco. Avere un tempo ben definito mi permette di dare il massimo garantendomi di riposare successivamente. Guido la mia piccola Pandina con il cambio automatico da un anno esatto, da quando ho fatto pace con me stessa e ho capito che la mia non era ansia ma bensì che guidare con le marce fosse letteralmente impossibile per la mia mente. Guidare non è semplice: non acquisendo l’automatismo, o meglio, perdendolo velocemente, non posso restare “ai box” per più di una settimana, altrimenti quando riprendo la macchina per qualche minuto devo memorizzare nuovamente i comandi e i pedali. Mi sposto molto con la bici elettrica e ci porto anche mio figlio. Ho imparato molto tardi ad andarci, a tredici anni.

Eccoci giunti al tasto dolente: la casa. Ho seri problemi nella gestione delle pulizie, dei pasti e della spesa. Non riesco a programmare le pulizie o le lavatrici e mi perdo, a volte anche utilizzando il timer, perché la stanchezza vince su di esso. Un tasto particolarmente dolente è la spesa: lasciata sola dentro ad un supermercato sono persa e non compro nulla. Non riesco a ricordare come fanno tutti e cosa mi serve in base al piatto da cucinare. Probabilmente è un processo mentale troppo complesso e mi ci perdo dentro. Attualmente sto cercando di usare un menù settimanale e una dispensa perpetua da tenere in casa, in modo da scrivere con calma la lista della spesa e dedicare una mattina o un pomeriggio solo ad essa.

Ho avuto la diagnosi da meno di venti giorni, tuttavia sono sempre stata così. Non sapendolo, ho trovato delle mie strategie per ovviare alle mie difficoltà: nel lavoro sono senza dubbio una tra le più lente, ma sono anche competente e preparata. Vivo alla ricerca di modi che mi rendano la vita più facile e migliorino le mie capacità di gestire la mia famiglia. Non è semplice, ma l’aver bisogno di portare mio figlio a fare terapie mi ha portata a prendere la macchina mai guidata e a macinare almeno 250 km a settimana, pur di permettergli di svolgere queste attività. Mi dicono che sono un uragano e una campionessa in problem-solving, forse perché così ci sono nata e, senza aiuti, mi sono creata la mia strada. Ora che la mia disprassia è uscita allo scoperto ho però una nuova consapevolezza e posso cercare strumenti e strategie più idonee per risparmiare le mie energie. Sembra una sciocchezza ma, cambiando la tipologia di forbici che utilizzo al lavoro, l’ansia da prestazione che assale chiunque abbia delle difficoltà si è dimezzata, se non è addirittura sparita.

Credo che, se sono arrivata fino a qui, a laurearmi e lavorare, sia perché ho attivato ogni mia risorsa. Tutti i disprassici hanno queste risorse: basta trovare la chiave giusta per accedere a questo modo di essere, con cui conviviamo senza saperlo.