di Bruno Palaia

Quando intorno ai 24 anni ho sentito per la prima volta parlare di disprassia ho subito intuito che quel nome che non avevo mai sentito aveva a che fare con me. La stessa percezione l’ha avuta mia madre, nonostante, quando avevo 6/7 anni, le avevano detto che a parte alcune difficoltà non c’era nessun problema particolare. “L’ho sempre saputo” fu la sua risposta, pur avendo sentito quel termine per la prima volta. Infatti, in virtù dei 4 figli sapeva che il terzo aveva qualcosa di diverso dagli altri. E sì, perché la disprassia è poco conosciuta e a tratti invisibili, ma per chi la vive, direttamente o indirettamente come una madre, anche se non sa darle un nome, è un qualcosa di percepibile. L’essere maldestro, lo sbattere contro muri e gambe altrui come se non esistessero, l’essere impacciati nel vestire, il tenere la penna in modo originale, l’essere bloccato nel pensare un’azione, l’incapacità di orientarsi, sono alcune tra le caratteristiche comuni presenti in un soggetto disprassico. Ma ogni disprassia è storia a sé e dietro a delle problematiche ci sono delle persone con le proprie storie e in questo spazio voglio condividere la mia.

Intorno ai 20 anni non stavo bene innanzitutto con me stesso. Avevo una fidanzata, diversi amici, un percorso universitario che mi appassionava, una famiglia unita ma sentivo che mi mancavano alcuni pezzi. Avevo una bassissima autostima e da sempre nel confronto con gli altri mi sentivo sempre indietro nella conquista di ogni singola autonomia. Inoltre, oltre la paura di non essere all’altezza per nessuna cosa, un’emozione che spesso mi giocava brutti scherzi era la rabbia: ero un tipo molto calmo ma certi scatti d’ira mi facevano diventare a tratti violento. A un certo punto, in un’inquietudine di fondo, gli interrogativi sul mio futuro si sono moltiplicati e mi sono domandato quale senso avesse la mia vita. Dopo un percorso di fede, al mio quarto anno di università mi sono trasferito in una comunità religiosa, nel quale ragazzi da ogni parte di Italia vanno per condividere per un anno la vita comunitaria e cercare di comprendere come spendere la propria vita. Durante questa esperienza, tutti i miei limiti sono venuti fuori. Da un contesto nel quale ero superprotetto, come quello di casa, e nel quale ero in un certo senso dispensato da quasi tutte le attività pratiche, mi sono trovato in uno nel quale tutti i ragazzi partecipavano attivamente alla vita d’insieme, occupandosi ad esempio anche della cucina, della lavanderia e del giardino. E se da una parte anche il desiderio di uscire fuori da un contesto “troppo comodo” per poter crescere pienamente come persona mi aveva fatto compiere quella scelta, dall’altra parte non potevo bypassare un problema che comunque c’era. A metà anno il senso di fallimento era alto ma soltanto in questo periodo, grazie anche al sostegno di coloro che condividevano con me quell’esperienza, ho compreso che valevo per ciò che ero e che per poter amare meglio gli altri dovevo cominciare a prendermi cura di me. Perciò dopo quell’anno, ho iniziato un percorso a livello psicologico nel quale ho potuto rileggere la mia storia e sono così riuscito a dare il nome alla fonte di diverse mie difficoltà. Scoprii che la bassa autostima, la rabbia fondamentalmente contro me stesso a causa delle tante frustrazioni, la fatica a passare dall’idea all’azione, avevano qualcosa a che vedere con quella disprassia che fino ad allora avevo ignorato. Conoscerla mi ha permesso di rivedere la mia vita con occhi diversi e comprendere che la colpa delle mie difficoltà non ero io. Anzi, mi sono reso conto che dietro ad un qualcosa che può sembrare soltanto negativo c’era molto di più. E se fino a quel momento mi ero concentrato soltanto sul puntino nero del foglio bianco, da allora in poi ho potuto anche realizzare che in conseguenza di quella condizione si nascondevano anche i miei punti di forza. Ad esempio, il dover metter più impegno degli altri mi ha permesso di sviluppare una certa determinazione, che mi ha permesso a finire gli studi di giurisprudenza, nonostante le difficoltà a stare attento durante le lezioni e a prendere appunti.

Ma tra i frutti più importanti dell’essermi riconosciuto come disprassico è che se prima mi sentivo incapace e non adatto per qualsiasi strada avessi intrapreso, da allora grazie al percorso fatto e alle persone che mi hanno accompagnato nel cammino umano e spirituale, ho potuto scegliere cosa fare della mia vita. E anche il giorno in cui pubblicamente ho preso il mio impegno di entrare in una congregazione missionaria, entrando in chiesa, in un momento cruciale della celebrazione mi resi conto di avere i lacci sciolti. Sorridendo allora ho preso coscienza di come io, che fin da piccolo ero soprannominato dagli amici “lacciu sciundutu” (che in dialetto calabrese significa proprio laccio sciolto) sono potuto arrivare a uno dei momenti più importanti della mia vita grazie anche a tutto il percorso fatto non privo di sofferenze. Ancor più convinto che, pur non potendo eliminare i disagi e le difficoltà che mi porto dietro fin da bambino, la mia storia riconosciuta e accolta mi ha permesso ora di prendere in mano la mia vita con maggior maturità per poterla così viverla anche come un dono per gli altri.